Giovedì del Fotoreportage: Intervista a Mario Spada
Da fotografo di matrimoni a fotoreporter, com’è successo?
Ho fatto un percorso scolastico sbagliato: ho studiato ragioneria e ho ottenuto il minimo dei voti per essere un fotografo perfetto. Ho incominciato a fare il fotografo a 15 anni, nel 1986. Ho fatto l’assistente di un fotografo di matrimoni, uno dei più conosciuti a Napoli. Negli anni, sempre a Napoli, ho conosciuto un alto fotografo di matrimoni che aveva un modo di fotografare diverso.
Era uno che sempre si metteva in discussione, che cercava di fare delle cose diverse. Adesso è riconosciuto come il miglior fotografo al mondo nel campo dei matrimoni e si chiama Oreste Pipolo. Lui mi ha dato la mia prima camera fotografica e ho incominciato a fotografare. (Alcune di queste fotografie saranno presenti nel mio prossimo libro su Napoli, che uscirà presto.)
Nel 1996, ho fatto il mio primo servizio fotografico sempre come foto amateur. Nessuno mi aveva commissionato il lavoro. Sono andato in uno dei posti dove si gioca a tombola e ho fotografato le donne che giocavano. Secondo me non è stato un caso che sia entrato in quella stanza e che abbia fatto due fotografie che per me sono tuttora validissime nel mio lavoro su Napoli. Tutto è successo così: entro nella stanza e c’erano due donne che giocavano. Ad un certo punto incominciano a dire “Oh! Il fotografo, il fotografo!”, una di loro si alza, le altre incominciano a battere le mani a ritmo di musica, e questa donna di 60 anni si spoglia davanti a me. Quelle sono state le mie “due fotografie”. Quello che per me poteva essere un ottimo inizio come fotografo di reportage, di chi può colpire l’immaginario delle persone.
Nel 1998 ho chiesto di entrare in una scuola pubblica di fotografia di Milano, passando una selezione e prendendo uno dei 20 posti disponibili. In questi due anni di scuola, mi si è aperto un mondo che conoscevo in minima parte. A parte gli autori, è stato il fatto di incominciare a ragionare sulla fotografia in una maniera professionale, a lavorare tante ore su una cosa.
Andare alla riscoperta di quello che avevi prodotto nel frattempo, per poi venire a Bolzano…
Erano 4 anni che volevo mettere mano all’archivio. Mi veniva paura soltanto a guardarlo. E in una settimana, prima di venire qua, ho visto tutto il lavoro. Avevo questo impegno a Bolzano ed è stata la motivazione per spingermi a farlo. È stata un’ottima cosa. In sei giorni ho fatto 800 scansioni ma avrò visto dieci mila foto, forse di più.
Mi sono meravigliato di alcune fotografie che non mi ricordavo nemmeno di aver fatto, e di tante fotografie che avevo già visto, che non avevo selezionato, di cui non avevo mai tenuto conto. Alcune di queste foto che avevo realizzato e che ho portato questa sera, non le avevo mai visto prima, non me ne ero accorto che c’erano. Eppure ci sono sempre state. È normale: con gli anni, dimenticandoti quello che hai fatto e andando a rivederlo un po’ più distaccato, lo vedi in un modo diverso. E come se vedessi il lavoro di un altro. E quindi puoi dire con più obiettività se quella foto ti piace oppure no.
La selezione delle fotografie non è un compito facile. Com’è per te selezionare le fotografie che devi consegnare alle redazioni?
Nella selezione che ho fatto sulle carceri di massima sicurezza in Sardegna, ho sbagliato completamente tutto: ho fatto il lavoro in digitale; appena tornato a casa, ho fatto la selezione e la ho mandata al giornale. Poi è successo che sono andato a Roma, dove ho incontrato la foto-editor che doveva pubblicare il servizio. Mi ha detto “Mario, perché non mi fai vedere tutto quello che hai fatto?” Alla fine sono venute fuori delle foto che io non avevo selezionato, e che a lei, invece, erano piaciute moltissimo.
Secondo me il fotografo è la persona meno adatta per selezionare le fotografie. Almeno nell’immediato. Poi se ci si dimentica e le si va a vedere dopo sei mesi, un anno, allora può essere più oggettivo nella scelta. Pero il problema è che quando fai delle fotografie, hai avuto un’esperienza nel momento del fotografare. Questa esperienza è talmente forte che la fotografia ti sembra forte. Invece non lo è. Sei condizionato da quello che hai vissuto nel momento in cui lo hai fatto. Per lo meno così mi succede.
Mi sembra che tu sia molto coinvolto a livello emotivo con i tuoi soggetti quando lavori….
Di solito devo conoscere le persone che fotografo. Per esempio, mi è capitato di fotografare Pina Grassi che è la mogie di Libero Grassi, che è stato un imprenditore ucciso dalla mafia nel 1991. Per i venti anni dalla sua morte, insieme a Lirio Abate che è un bravissimo giornalista dell’Espresso, siamo andati a fotografarla. Ho passato un intera giornata con questa donna e, in qualche modo, mi sono sentito particolarmente legato a lei. Io ho dovuto assolutamente entrare nella sua vita e sono riuscito a fare delle fotografie emblematiche, come per esempio, lei che sta seduta su un terrazzo e ha un sorriso bellissimo… immagina una donna di 83 anni con un sorriso bellissimo e dietro un’onda enorme che sembra che stia quasi per travolgerla. E un po’ come il suo spirito, il suo modo di aver affrontato la morte -che è stata terribile!- di un marito così importante. Lei l’ho ha vissuto con dolore. E con un sorriso. Non è stata ammazzata anche lei dalla mafia, non è morta con la morte del marito. Lei ha vissuto con il ricordo di un marito immenso che non si è abbassato al ricatto della mafia.
“Dopo Contrasto mi si è aperto il mondo”…
Durante il periodo alla scuola di fotografia, ho realizzato servizi fotografici su vittime di combattimento e sulla madonna dell’acqua. Subito dopo sono entrato nell’agenzia Contrasto, dove ho finito di preparare un lavoro che avevo fatto sui tifosi e uno sulla storia di Francesco, un ragazzo agli arresti domiciliari. Dopo due anni e mezzo sono andato via da Contrasto perché non lavoravo e non imparavo nulla. Sentivo che stava svanendo qualcosa. Allora mi son detto “se devo cadere, devo cadere io, non devo cadere per colpa di qualcun altro”. E quindi sono uscito dall’agenzia, e mi si è aperto il mondo dell’editoria. Ho incominciato a lavorare come non mai. Ho fatturato in quel mese quello che ho fatturato in un anno da Contrasto.
Appena hanno saputo che ero uscito da Contrasto, i giornali hanno incominciato a chiamarmi. Da solo sono andato avanti nel lavoro. Adesso posso dire di essere, almeno in Italia, un fotografo affermato. Posso dire che faccio lavori abbastanza interessanti, faccio mostre, e di recente ho fatto un libro personale su Gomorra.
“Gomorra” non è un libro di foto di scena, è un libro di fotografia. Abbiamo lavorato otto mesi di fila, Tiziana Faraoni, foto-editor dell’Espresso, Daniele Zendroni, il grafico dell’Espresso, ed io. Lavoravamo a casa di Tiziana tutte le sere dopo il lavoro, dalle sette fino alle due del mattino. Ci sono state tantissime persone che sono passate in questa casa e che hanno dato il loro contributo a questo lavoro. O cucinando per noi oppure dando un consiglio sul lavoro. La casa di Tiziana si trova in un porto di mare, dove vengono ospitati tantissimi fotografi che vanno in direzione di Roma, che cercano un posto dove dormire. Per questo c’è stata interazione con altri fotografi. È un libro stampato benissimo, un bel libro. Però il libro su Napoli sarà proprio potente.
“Negli anni ho fatto altre due cose importanti”…
1. Ho costruito uno spazio espositivo e di lavoro, insieme ad altre persone. Dopo cinque anni di avviamento abbiamo chiuso perché il nostro proprietario ci ha buttato fuori attraverso un cavillo giudiziario.
2. Sono sto il fotografo di scena di “Gomorra” che è stato un film importante, un lavoro che prima di tutto mi ha fatto divertire. Avevo già lavorato a Scampia durante la guerra del 2004-2005. Con Roberto Saviano avevamo fatto parecchi servizi insieme per l’Espresso. Chiaramente, Roberto Saviano essendo l’autore del libro e sceneggiatore, ne aveva parlato con il registra Matteo Garrone, il quale aveva visto il mio lavoro, gli era piaciuto e mi ha voluto come fotografo.
Adesso faccio altre cose, oltre a fare il fotografo. Sto facendo un video documentario sul Rugby a Napoli. Voglio fare il registra di un film di una storia che ho scritto. Penso di essere una persona che non si ferma mai… Per esempio, l’anno scorso ho fatto un film insieme ad altri registri italiani, che è stato presentato al Festival di Cinema di Torino. Come primo approccio nel mondo del cinema è stato molto positivo. Bisogna vedere se sarò riuscito a realizzare anche questo nel tempo. Io fretta non ho e ho voglia di fare. Comunque continuerò a fare fotografia.
Oggi raccontavi che la fotografia digitale ti ha distrutto…
Si, tutt’ora il digitale non mi piace perché l’approccio, prima di tutto, è un approccio approssimativo. E poi non hai un limite, non avendo una pellicola che ti da dei numeri. Anche nel senso di tempo. Con l’analogico, hai bisogno di un tempo per caricare la pellicola, per scaricarla, quindi in quel tempo tu stai ragionando, pensando ad altro. Invece, quando metti una scheda di sedici giga nella macchina digitale significa che sono 600 fotografie che puoi scattare, anche nel giro di venti minuti. Basta che tieni premuto il pulsante.
Intervista a cura di Martha Jiménez Rosano
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